25 febbraio 2025
DIMENTICARE IL “RITO AMBROSIANO”
Quando un rito diviene una disgrazia
Va di scena in questa stagione la periodica rappresentazione de “Il rito ambrosiano”, una commedia dell’arte con frequenza decennale che storicamente ha come testo principale la regolamentazione edilizia, gli attori sono i membri della giunta municipale responsabili dell’edilizia, alcuni imprenditori delle costruzioni, la magistratura, qualche giornalista che guida il coro delle denunce, coro che viene sviluppato grazie ad uno stuolo di intellettuali, con buona frequenza di accademici, molto impegnati nella dotta scrittura di saggi sulla buona prassi urbanistica, meno in efficaci proposte.
“Il rito ambrosiano” è la poco nobile risposta meneghina alla caratteristica principale della legge urbanistica del 1942, che facendo riferimento al diritto germanico, affida la sua attuazione alla capacità ‘agente’ della pubblica amministrazione, facendole carico quindi di capacità creativa e organizzativa. Una bella sfida per una pubblica amministrazione educata all’interpretazione passiva della norma e attenta agli umori dei principi delle costruzioni.
Ma l’ultimo atto del rito, con recita ancora in corso, ha alcune caratteristiche che la differenziano sostanzialmente dalle recite precedenti, dominate da attori e interessi sostanzialmente locali.
L’ultimo atto potremmo chiamarlo quello della grande smemoranda. Infatti il testo principale, la regolamentazione edilizia, specie quella succedutasi dal 2013, sembra aver dimenticato:
Gli anni successivi al 2013 sono importanti per l’ambiente, infatti sono gli anni in cui matura un processo:
– in cui si ha consapevolezza degli effetti della grande accelerazione del consumo di risorse, già annunciata a Stoccolma 1972;
– in cui la comunità scientifica elabora prima gli earth boundaries, ossia la valutazione degli effetti biofisici dell’eccessivo prelievo e carico ambientale dei processi che hanno caratterizzato la grande accelerazione. Alla valutazione del carico è seguita l’elaborazione di parametri tecnici e comportamentali ‘sicuri’ per la nostra sopravvivenza, fatti propri dalle Convenzioni internazionali sull’ambiente, sottoscritte anche dagli ambrosiani;
– in cui, data l’inazione dell’ambiente politico e imprenditoriale, emerge la proposta dei tipping point, climatici e sociali. Questi sono punti di azione limitati ma con grande effetto di ridondanza, ultima spiaggia per contrastare gli effetti disastrosi del cambiamento climatico;
– che ad oggi si chiude con la proposta di dare ‘resilienza’ alle politiche ‘sicure’ suggerite dai grandi centri di ricerca attraverso politiche sociali ‘giuste’, all’insegna del nessuno resti indietro nell’attuazione dei nuovi processi.
Ma sono anche gli anni della grande rivoluzione cibernetica, in cui lo spazio virtuale ha il sopravvento sullo spazio fisico, avrebbero dovuto essere gli anni della rivoluzione nell’organizzazione della ricerca e delle politiche, gli anni in cui i nuovi modi di connettività e le reti avrebbero dovuto diventare infrastrutture centrali per l’azione pubblica, e con essi i dati: la materia prima dei processi tecnologici, produttivi, sociali. Avrebbero dovuto essere gli anni dei grandi investimenti, delle grandi scelte e, data la molteplicità delle problematiche, dei grandi sbagli.
Questo rapido rap di questioni spiega quanto è successo: all’esigenza di sviluppare esponenzialmente la capacità agente della pubblica amministrazione, con nuove aperture e grandi politiche collaborative, la risposta è stata una colata di cemento armato, una sorta di grande muraglia autarchica immaginata a protezione della ‘tradizione’ ambrosiana, che ha ignorato I grandi cambiamenti dirompenti in atto, e venduta come ‘progresso’.
In questa dinamica bisogna tener conto di alcuni fattori esogeni, il grande impero cinese ha scelto Milano, come approdo europeo per le sue due più importanti banche e per alcuni gruppi industriali, uguale effetto hanno prodotto la Brexit e la dimensione irrisoria degli oneri a carico degli immobiliaristi, rispetto a quanto praticato nelle principali città competitor a scala internazionale.
A fronte di queste dinamiche la pubblica amministrazione ha alzato bandiera bianca il pollaio è diventato grattacielo, il valore pubblico un orpello del passato.
È cambiata la recita, il rapido excursus di eventi ci dice che siamo di fronte a nuovi alfabeti: per la gestione delle risorse, delle tecnologie, delle pratiche sociali. Di fronte a questi eventi la comunità ambrosiana non ha avuto la forza di passare da un deprecabile sistema di relazioni lineari ad un virtuoso sistema di relazioni complesse. In altri termini non c’è stato un ecosistema capace di dare un’interpretazione virtuosa ai complessi scenari che si andavano delineando.
Gli effetti sono preoccupanti: in termini di carico ambientale, di deperimento dei fattori antropici, di salute dei cittadini. E i cittadini? Tranquilli, drogati a suon di bonus, tanto pagano le generazioni future.
La rilettura ecosistemica del rito ambrosiano è utile, perché se la variabile chiave della rappresentazione è dilatata dalla gestione burocratico-lineare delle norme alla capacità del pubblico di proporre e gestire nuovi scenari ambientali, sociali e tecnologici, la sua qualità dovrebbe dipendere innanzitutto dagli attori che gestiscono il sapere. A questo punto fare un ceck della qualità dell’offerta didattica e di ricerca delle nostre istituzioni non sarebbe utile? Così come spiegare l’inazione municipale nell’uso, manipolazione e gestione dei dati. E ancora è sostenibile il rapporto della finanza rispetto ai processi innovativi? In silenzio il rito ambrosiano è stato stravolto, siamo passati dalla sinergia con il sistema tedesco a quella con il mondo arabo, è un processo lineare questo?
La chiave per uscire da questa crisi sta innanzitutto nella diffusione e pervasività dei nuovi sapere per un modello di sviluppo fondato sull’equità: una questione che implica l’abbandono radicale del rito ambrosiano a favore di prassi pubbliche trasparenti, coinvolgenti, scalari.
Un programma basato sulla diffusione di modi di vita consapevoli, coerente con un modello economico non estrattivo, che punti alla socializzazione delle risorse residue dovrebbe essere obiettivo dei responsabili del sapere, della pubblica amministrazione, degli operatori economici consapevoli.
Un programma basato sull’azzeramento del colonialismo tecnologico dimostrerebbe che gli ambrosiani sono in grado di rinnovare il loro alfabeto a favore di una globalizzazione fondata su scambi equi, capaci di dialogare con i nuovi sistemi di relazione olistici imposti dall’oriente.
Dimenticare il rito ambrosiano è una priorità, ma occorre un sistema culturale capace di comprendere i nuovi alfabeti che tentano di coniugare progresso tecnologico e nuove regole di socialità.
Giuseppe Longhi