25 febbraio 2025

COSA PENSANO DELLA GUERRA I GIOVANI

Anime perse nella confusione della politica 


Copia di Progetto senza titolo (8)

“Benedette le spade, benedetti i fucili branditi da quella gioventù generosa; e benedetti i cuori che in così verdi anni palpitarono di tanto grande amor patrio, e che il piombo nemico estinse… Non erano uomini, erano leoni quei giovinetti italiani che combattevano con indomito valore…”. Sono righe tratte da un libro di tale Guido Fabiani, friulano con vocazioni pedagogiche e celebrative, “Il 1848 narrato ai fanciulli”, pubblicato nel 1898 da Vallardi (lo si può acquistare ancora alla modica cifra di dieci euro).

Sono i “giovinetti” a dar corpo e sangue alla guerra. Poi, a distanza d’età, vengono generali e colonnelli.

«Novantanove, m’han chiamato, m’han chiamato m’han chiamato a militar, e sul fronte m’han mandato, m’han mandato m’han mandato a sparar / Combattendo tra le bombe, ad un tratto ad un tratto mi fermò, una palla luccicante nel mio petto nel mio petto penetrò…”. Una canzonetta restituisce la scena: la trincea, le bombe, la palla luccicante. Non si nomina la morte. La scena così la vissero i celeberrimi, per lungo tempo, finché qualcuno sopravvisse, “ragazzi del 99”. Fu nel 1917, dopo Caporetto, dopo la disfatta del generale Cadorna (all’epoca 67 anni), che poco meno di duecentomila diciottenni (talvolta neppure diciottenni) si ritrovarono al fronte. D’altra parte solo qualche anno prima, quando per l’Italia la guerra era ancora una opzione, altri giovani, il fiore della borghesia nazionale e patriottica, propagandavano la corsa alle armi e le università diventarono uno dei centri principali della mobilitazione interventista: contro i neutralisti, contro i pacifisti, contro Giolitti che quella strada non voleva percorrere.

Mario Rigoni Stern aveva diciassette anni quando si arruolò volontario nel corpo degli alpini, ne aveva diciannove quando saliva le montagne di confine per dar battaglia, come non capiva, agli chasseurs alpins, montanari e ragazzi come lui, e di anni ne aveva ventuno quando divenne il sergente nella neve della ritirata di Russia.

Nuto Revelli compiva ventidue anni quando dalle montagne di Cuneo muoveva contro i nazifascisti.

Gennaro Capuozzo morì combattendo contro i carri armati della Wermacht durante le Quattro giornate di Napoli. Aveva dodici anni.

Un libro straordinario, “Lettere di condannati a morte della Resistenza”, raccoglie, ad opera di Giovanni Pirelli e di Piero Malvezzi, le ultime lettere di quei patrioti. Ad ogni lettera si accompagna una breve nota biografica. Si leggono le date di nascita: per la maggior parte sono giovani che passano di poco i vent’anni, molti non sono neppure arrivati a quel traguardo.

Risorgimentali, patriottici, avventurosi e avventurieri o semplicemente piegati dagli obblighi o ancora uomini liberi in difesa della loro libertà: si può classificare secondo categorie ben diverse il rapporto che fu dei giovani con la guerra e lo si dovrebbe “aggiornare” perché siamo ben oltre il secondo conflitto mondiale, che provocò cinquanta milioni di morti, e ben oltre la Corea, il Vietnam, la ex Jugoslavia, la Somalia, l’Irak. L’Ucraina ha i suoi “ragazzi del 99”, i suoi diciottenni chiamati alle armi. Chi può fugge o si nasconde. Anche in Israele non mancano prove di renitenza alla leva.

Per chi sta in Italia, come in altri paesi d’Europa, le guerre vicine sono immagini, non solo televisive, che ne rappresentano tutta la ferocia e possono trasmettere il senso della loro tragica inutilità. Se ne può soffrire per umana solidarietà o perché aumenta il prezzo della benzina. Non so quanto soffrano i millenial o i gen zeta davanti alla sequenza dei morti per strada nel loro sangue, dei batuffoli di tela bianca che avvolgono cadaveri di neonati, dei volti affamati, dei palazzi sventrati. Può crescere la paura all’idea di vivere in un mondo in armi, travolti dalla retorica delle armi: da anni non si sente parlare d’altro se non di trasferimenti di missili e cannoni, di droni che danzano sulle nostre teste, di investimenti miliardari, di una economia che prospera producendo strumenti di sterminio.

Non c’è la guerra a casa nostra, ma per la prima volta forse dopo ottant’anni l’idea di subire un’aggressione diretta, in qualche forma, da potenze ostili, la si può concepire. Come la possano concepire quei ragazzi è difficile immaginare, tale è la complessità di quell’universo, tali sono le diversità (di classe, ma non solo: anche di lingua, di religione, di tradizione…). L’Italia invecchia.

Tra il 2002 e il 2023 l’Italia ha visto diminuire di tre milioni e mezzo di unità il numero dei giovani residenti (tra i quindici e i trentacinque anni), passati da sedici a meno di tredici, con una perdita di oltre un quinto (meno 21,2 per cento). In questi numeri si potrebbe leggere ovviamente una infinità di facce, di profili, di identità.

Le manifestazioni frequenti e numerose per la pace in Ucraina o soprattutto in Palestina, al di là della ambiguità (diciamo pure ingenuità) dei contenuti e degli slogan, potrebbero attestare una straordinaria passione politica e la capacità di uno sguardo universalistico. Ma erano molti di più al seguito dell’ecologista Greta Thunberg.

Tanta passione dovrebbe manifestarsi anche nel voto, nell’esercizio di un diritto democratico che la Costituzione garantisce. Ma poi si scopre che l’astensionismo dei giovani (siamo tra i diciotto e i trentacinque anni) è alto quanto tra gli adulti: nel ’22 si era giunti al trentasette per cento.

Se ne può trarre un giudizio rispetto alla considerazione della guerra che possono aver maturato quei giovani? Probabilmente no: anche se in maggioranza non escludono che possa sfiorare anche noi, per quanto protetti dall’Europa (ma una recente indagine ha rivelato che non si nutre alcuna fiducia in un esercito europeo), è difficile immaginare che discutano di un proprio ruolo e di proprie responsabilità di fronte, ad esempio, ad una chiamata alle armi o, all’opposto, ad un appello di pace.

Se possono sopravvivere in piccoli manipoli una aspirazione alla “belligeranza” o, mediocremente, il culto per certi arnesi, per certi simboli e per un certo linguaggio, quanto sono condivise una cultura e una pratica pacifista come ai tempi di Capitini, “inventore” della marcia Perugia-Assisi, dei cortei per il disarmo o delle grandi manifestazioni per il Vietnam? 

Sì, per una minoranza, se si pensa al pacifismo come impegno costante, come valore etico, come scelta morale. Sì anche per gli altri, se il pacifismo maschera il compiacimento per non sentirsi coinvolti, è disinteresse, agnosticismo, indifferenza, egoismo di chi si trincera dietro “tanto io non c’entro”. Ma qui entrerebbe in gioco la formazione, nel segno negativo di un fallimento della scuola e delle famiglie, di un occultamento della storia, di un disconoscimento della realtà vasta che ci circonda e ci condiziona. 

Mancano spesso occasioni per connettere e comprendere quanto sta accadendo, per capire sé stessi dentro questa società: l’assenza consente la bolla dell’esistenza. L’orientamento dei più prende le mosse dalla televisione o da instagram, con quale superficialità e attraverso quali manipolazioni è facile intuire. Vale in generale. Ma la guerra e la ipotetica vicinanza della guerra dovrebbe dare la scossa: quanto la si può subire taciturni, quanto ci si può sentire determinati ad una reazione, a superare la condizione dello spettatore?

Un sondaggio ha rivelato che c’è tra gli studenti fiducia nella diplomazia, cioè nella politica. Una fiducia che è speranza, ma che si può permettere chi sta da questa parte, ancora risparmiato dalla guerra, chi può vedere le macerie e i morti di Gaza come in un film.

Oreste Pivetta



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