17 dicembre 2024
I GIORNALI CARTACEI STANNO SCOMPARENDO, LE EDICOLE PURE
Che mondo ci aspetta senza carta stampata?
17 dicembre 2024
Che mondo ci aspetta senza carta stampata?
A partire dal 2019 in Italia sono sparite quasi duemila e settecento edicole: un calo di oltre il sedici per cento. Dati “allarmanti” se si considerano gli attuali undicimila punti vendita rispetto ai trentaseimila di vent’anni fa: la contrazione delle vendite di quotidiani e riviste cartacei a scapito dei media online ne alimenta la sparizione in molti comuni (il venticinque per cento ne è ormai privo) e ne mette in discussione in ogni comunità il ruolo di canale di informazione… Un altro, magari esiguo, colpo alle relazioni sociali , perché le edicole rimangono, quando rimangono, momenti di una possibile integrazione della collettività.
Sono alcune righe tratte dal testo di una interrogazione presentata al parlamento europeo pochi mesi fa. A caccia di soldi.
Nel cammino quotidiano, di marciapiede in marciapiede, una volta di edicole se ne incontravano una, due, tre, quattro… Nella prima potevi acquistare, verso le altre muovevi lo sguardo comunque attratto dai titoli o dalle fotografie, persino dai cumuli di giornali, spacchettati o no, appoggiati al bordo di quel chiosco che un tempo era paesaggio urbano. I quotidiani erano disposti su un piano con ordine, un ordine che esprimeva le sensibilità politiche dell’edicolante, chiuso nel suo antro oscuro. Come in una fotografia di Brassai, dalla serie “Parigi di notte”. Dal buio e dal freddo emerge chiaro il volto di un giovane con una berretta in testa. Anche lui legge.
Gli italiani invece leggono sempre meno. Secondo una indagine dell’Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il trentacinque per cento dei nostri connazionali rientra nella categoria degli “analfabeti funzionali”: cioè sa leggere, ma ha difficoltà a capire quello che legge. Solo il cinque per cento è in grado di comprendere e valutare testi densi su più pagine, cogliendo significati complessi o nascosti.
Lo aveva già scritto molti anni fa, nel suo “Saggio sulle classi sociali” (1976), Paolo Sylos Labini: “Gli italiani sono analfabeti”. Tullio De Mauro, linguista che fu pure ministro della pubblica istruzione, morto nel 2017, era tornato sul tema, coniando una fortunata definizione: “analfabetismo di ritorno”, illustrando una disposizione acquisita alla lettura, smarrita però per strada. De Mauro associò questa perdita alla stessa caduta dell’interesse politico e quindi della razionalità del voto, una volta “di testa”, oggi “di pancia”.
Gli italiani, che non sanno più leggere, acquistano sempre meno i giornali: quelli di carta, ma pure quelli online (malgrado promozioni che “vendono” abbonamenti a prezzi irrisori). Qualche numero: quasi sei milioni di copie al giorno nel 2007, tre milioni nel 2016, un milione e trecentomila quest’anno (in media nel primo semestre gennaio-giugno). Un disastro… Gli editori lo sanno bene. E infatti battono cassa. Proprio nei giorni scorsi è apparso in molti giornali un manifesto della Fieg (il loro “sindacato”), un appello al governo di questo tenore: concedete finanziamenti a destra e a manca, a noi niente. Nella fattispecie il manifesto denunciava varie forme di generosità: un miliardo e sessanta milioni per il cinema, centoventitré miliardi di oneri a carico dello Stato per il superbonus… Conclusione: niente a noi, che pure siamo i garanti dell’articolo 21 della Costituzione (libertà di stampa) e del pluralismo dell’informazione. Sic!
Nel frattempo, e cioè da anni, gli stessi lungimiranti editori rimediano alla crisi tagliando l’occupazione e soprattutto i costi. Redazioni meno numerose, mansioni moltiplicate, stipendi ai minimi sindacali (l’ultimo contratto giace immobile dal 2016), ricorso massiccio a collaboratori esterni (in realtà lavoratori “autonomi” legati ad una testata, nella quale non entreranno mai), le cui retribuzioni sono da raccolta dei pomodori, vergogna su vergogna, dai tre ai cinque euro (ovunque, anche nei cosiddetti “grandi giornali”) ad articolo. Mi sapete dire dove può sopravvivere l’indipendenza. Mi sapete dire dove può sopravvivere la qualità.
Forse si potrebbe partire da qui per comprendere le ragioni della crisi e della scarsa appetibilità dell’informazione in Italia, soprattutto del suo conformismo, dal momento che è assai rischioso contraddire il potente di turno, editore come ministro, capo del governo come sindaco, quando si lavora sotto continuo ricatto, quando si fa tutto a spese proprie, quando un padrone non tira fuori un euro per sostenere una inchiesta, quando lo stesso editore può tagliare un rapporto a proprio piacimento, quando per portare a casa la pagnotta si devono macinare pezzi su pezzi, quando le “fonti” sono agenzie, siti online, Instagram o X. Adesso ci si è messa di mezzo l’Intelligenza artificiale: quella “generativa”, quella cioè che ti confeziona l’articolo chiavi in mano, sarebbe vietata dalla deontologia professionale e il suo uso sarebbe sanzionabile (vedi il Codice deontologico dei giornalisti approvato lo scorso giovedì). Ma, alla fine, chi sta a guardare?
Allo stesso modo chi sta a guardare se, ad esempio, il Giornale di sabato annunciava in prima pagina (titolo d’apertura): “La verità su Meloni e le tasse… il fisco amico funziona” (in relazione ovviamente alle dimissioni del direttore dell’Agenzia delle entrate Raffini) e a pagina tre, in fondo: “Concordato verso il flop, si cercano altre risorse”. Oppure se il primo giornale italiano fa di tutto per rincorrere settimanali di gossip e vive di interviste a illustri sconosciuti, di cure di bellezza e di diete dimagranti e poi riduce la notizia di uno sciopero generale a un titoletto che presenta mediocri incidenti in una città del nord.
Per non entrare nel merito di questioni tutto sommato ben più importanti, tipo Gaza o tipo l’Ucraina, quando la storia e gli sviluppi della storia finiscono nel cassetto dell’oblio. Per capire che cosa succede nel mondo bisogna cercare Limes o leggere qualche articolo di Internazionale, una delle esperienze editoriali più interessanti di questi decenni. Per capire quanto valga la ricetta di Milei, osannato da certa Italia, bisogna leggere ad esempio un articolo della brasiliana Mayara Paixao, naturalmente su Internazionale.
Nei lontanissimi anni trenta, Walter Benjamin scriveva: “Ciò che trova più ascolto ora non è più la notizia che viene da lontano, ma l’informazione che offre un aggancio immediato”. Profetico rispetto alla nostra disattenzione davanti agli orrendi conflitti sparsi nel mondo. Siamo andati oltre: il lettore moderno di quotidiani salta da una novità all’altra, anziché lasciar spaziare lo sguardo verso ciò che è lontano e indugiare in esso, ha perso cioè lo sguardo lungo, lento, che sa di analisi e di meditazione… Basterebbe un viaggio in metropolitana, dove in pochi minuti si può assistere all’immersione totale dei viaggiatori nello schermo del telefonino, dove scorrono immagini e titoli, uno in fila all’altro, in un flusso interminabile, senza alcuna gerarchia, dove le bombe sull’ospedale hanno lo stesso rilievo del divorzio dell’ultimo cantante.
Nel nostro mondo tutto funziona in relazione con il resto. Il consumismo induce a consumare il più rapidamente possibile. Anche l’informazione è merce e i morti di Gaza o del Dombass sono ormai alle nostre spalle.
L’informazione, come scriveva Gramsci nei Quaderni, è “formazione”: per chi la produce, per chi se ne dovrebbe giovare, per il giornalista e per il lettore.
Il lettore è quello che è, vittima magari della famiglia, sicuramente della scuola, della televisione (pensate al disastro della Rai, servizio pubblico), dei miti del tempo, del Grande Fratello.
Il giornalista vive nella stessa società, ma avrebbe l’obbligo della formazione (obbligo di legge). Ma prima vengono la scuola e l’università che formano poco e male, poi vengono i master di giornalismo, promossi dalle università e controllati dall’Ordine dei giornalisti, e quindi i corsi – specchietto per le allodole, proposti dalle più prestigiose testate (dal Corriere al Messaggero), che promettono: “diventerai giornalista”. In verità nel primo caso, i master aprono la strada all’esame di Stato e, in caso di promozione, alla qualifica di giornalista, nel secondo proprio a niente: in un caso e nell’altro la disoccupazione è più di un’ipotesi.
E’ il giornalismo, bellezza, come ricordava Walter Matthau a Jack Lemmon in un celebre film di Billy Wilder. Ma in “Prima pagina” Hildebrand Johnson e Walter Burns avevano ben capito che cosa fosse il mestiere. Sarebbe stato il giornalismo di Joseph Pulitzer, grande editore e inventore dell’omonimo premio, che proclamava: “Il giornalista ha una posizione tutta speciale. Lui ha il privilegio di plasmare le opinioni, toccare il cuore e fare appello alla ragione di centinaia di migliaia di persone ogni giorno… Ciò che va insegnato è lavorare per la comunità: non per un commercio, non per se stessi, ma in primo luogo per il pubblico”. Pulitzer, agli inizi del secolo scorso, sosteneva la necessità di avviare scuole pubbliche di giornalismo.
Nelle nostre vicende, ci troviamo al cospetto di una brigata di giornalisti o aspiranti tali (cento ventimila iscritti all’Ordine) imbrigliati da direttori a loro volta imbrigliati da un presidente del consiglio (così come lo saranno dal prossimo), da un editore in conflitto di interesse, da improvvisati speculatori. Pecunia non olet e , soprattutto, fa comodo. Il richiamo alla “schiena dritta” del presidente Napolitano sta nell’archivio, in una pagina dimenticata della storia del giornalismo italiano. Salvo eccezioni.
Ricordo sempre un episodio. Nella notte della morte di Pino Pinelli, il questore di Milano, Marcello Guida, ex direttore del confino di Ventotene, organizzò una conferenza stampa per esaltare i successi della polizia: era stato individuato il colpevole, il “suicidio” era stata una ammissione di prova. Una giovane, allora, giornalista, ora ormai centenaria, s’alzò e gridò in faccia al questore: “Ma che cosa dice? Quali prove avete?”. E’ scritto tutto in quel capolavoro di giornalismo che è “Una finestra sulla strage” di Camilla Cederna. Trovatene adesso una così.
Oreste Pivetta
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