1 ottobre 2024

PER IL RECUPERO D’UNA COSCIENZA CIVILE

Riflessione sull'oggi pensando al futuro


1 (6)

«A Milano quello che mi dà fastidio sono le piste ciclabili, i ciclisti mi piacciono solo quando vengono investiti». Le parole choc di Vittorio Feltri han scatenato reazioni risentite, polemiche, annunci di querele e di denunce. “Una battuta”, s’è giustificato lui. Spiegazione che invece di allentare la tensione ha surriscaldato il clima, in un susseguirsi acceso di critiche. 

Cerchiamo di non assecondare la modalità corrente d’inseguire l’inanellarsi di reazioni a un evento, come se gli individui si annullassero in un collettivo informe e in esso tutti, ormai deprivati di iniziativa e volontà soggettive, fossero posseduti da una sorta di coazione a ripetere: a intervenire. Fermiamoci all’episodio esemplare al caso appunto del giornalista di fama, che però oggi è anche Consigliere regionale della Lombardia per Fratelli d’Italia, il partito della premier Giorgia Meloni; ha dunque, oggettivamente, un ruolo politico-istituzionale, in termini di rappresentanza. 

Se ci si mette dal vertice d’osservazione della responsabilità oggettiva, che è saper di dar l’esempio, innescare un processo nell’opinione pubblica secondo cui “se lo fa lui perché non posso farlo io”, non si può sfuggire ad alcuni interrogativi. In gioco ci sono modelli di comportamento, agiti e parole che caratterizzano l’etica pubblica; cioè i riferimenti al bene comune che tutti si dovrebbe avere, a incominciare da chi ha ruoli apicali nell’informazione, in politica, economia, cultura.

Si sa che non esiste un’età dell’oro del bon ton istituzionale; polemiche, attacchi, atteggiamenti inappropriati hanno accompagnato mutamenti sociali, politici, culturali, religiosi. Stando al nostro di mondo, parole grosse son volate da quando nell’antica Grecia s’è incominciato a parlare di demos, popolo, e di forme di governo partecipate, della dialettica tra interessi e istanze per arrivare alla gestione della cosa pubblica, di consapevolezza delle forme di potere e di implicazioni e conseguenze del loro esercizio. 

C’è stata però una novità nello sviluppo della coscienza collettiva moderna: l’acquisizione che “il medium è il messaggio”. Marshall McLuhan 60 anni fa dimostrò che la particolare struttura comunicativa di ogni medium rende questo non neutrale e tanto meno asettico; suscita negli utenti-spettatori determinati comportamenti, stili di vita, modalità relazionali, produzione di scale di valori e di disvalori, riconoscimento o rifiuto di esse. Una struttura comunicativa negli Anni 60 e per molto tempo dopo dotata di regole per chi comunica, per i destinatari, per gli strumenti del comunicare (linguaggio, contenuti); regole contemperate con dinamiche e principi generali del sistema politico-istituzionale all’interno del quale avviene la comunicazione. 

L’impianto teorico-pratico di McLuhan è rimasto valido nella sostanza. L’affermazione dei social e un certo uso e abuso han cambiato sostanza e regole. A cascata è seguito il resto, che a noi qui interessa e che è opportuno richiamare in termini essenziali. Il comunicatore può non essere un professionista, un operatore culturale che “media”, vede e racconta con parole sue e con immagini da lui scelte ciò che accade. È cronaca consolidata: un passante filma col telefonino un evento e il “girato” va in rete e diventa fonte per gli stessi giornali e le tv. 

Questa è – chiamiamola così – la parte “buona”: è un contributo alle opportunità di arricchimento della conoscenza. Situazione diversa è quella che si determina quando una platea infinita di spettatori ha la possibilità “social” di salire sul palco, prendere la scena, dire la propria su fatti e persone. Un io informe finisce per configurarsi come un noi che incide sul corso degli eventi e sul destino delle persone. L’”Io-Noi-indistinto-social” può metterci di fronte ad un uso di parole che non sono affatto espressioni di menti e di cuori; da bocche e da dita cliccanti anonime attraverso manifestazioni sonore e segni resi visibili in pixel escono manifestazioni assolutamente estranee a pensieri, a sentimenti, a vissuti. 

Vengono alla luce esiti di qualcosa di non digerito, tanto meno elaborato e trasformato. Accade che contenuti emotivi non assimilati siano letteralmente vomitati con le conseguenze che la nostra esperienza corporea peraltro conosce bene. Le componenti del materiale gastrico e duodenale vanno a spandere nell’apparato digerente acidità. Nel sociale questa si chiama corrosività, aggressività, odio, disgregazione. Non nutrendosi, non metabolizzando quel che viene ingerito (ma resta indigesto) il corpo sociale non si nutre, la socialità non cresce. Anzi, in preda a una nevrosi reattiva, moltiplica urti e conati di vomito. Il resto lo fa la regressione a stadi primordiali della coscienza fondati su imitazione, appartenenze, adesione a tipologie di tipo tribale, identificazione a modelli difensivo-aggressivi che sembrano dare sicurezza, garantire riconoscimenti, successo, affermazione.

La mutazione antropologica – perché di questo si tratta – dal comunicare transita all’esistere e va ad incidere sulla possibilità di vita e di esercizio di una coscienza civile: “Se questo è il trend, perché dovrei differenziami? Non esser conformista? Non omologarmi?”. Secondo lo spirito del tempo chi amministra la cosa pubblica vive di social. Il cittadino pure, anche se con un potere decisamente diverso. 

La politica, infatti, continua a decidere e a puntare ad avere sempre maggiori poteri e a minori controlli per imporre i propri punti di vista (tipo: premierato, autonomia differenziata, separazione delle carriere in Magistratura, pene per i giornalisti che pubblicano intercettazioni, decreti sicurezza); a fare leggi (meglio: decreti-legge, che un Parlamento ormai passacarte vara senza neanche poter emendare, per ordine di Palazzo Chigi); a finanziare alcuni comparti (i “milleproroghe e “decreti omnibus”) e a mortificarne altri (sanità e scuola pubblica, edilizia popolare); a privilegiare categorie (20 condoni in due anni) e a penalizzarne altre (a incominciare dai no al salario minimo); a promuovere identità e ideali (Dio, patria, famiglia) e a criminalizzarne molte (migranti, giovani, dissenzienti). 

La sfida oggi è recuperare una coscienza allo spirito del tempo: la coscienza civile appunto. È, ad esempio, affrancarsi dalla cultura del lamento (che produce indifferenza, astio, distruttività, di cui grondano certe prese di posizione anche di politici) e usare tutte le potenzialità della comunicazione perché riprendano a fermentare nell’impasto sociale alcuni valori base della convivenza: trasparenza, coerenza, onestà intellettuale, prossimità. 

Da dove cominciare? Da sé stessi. Occasioni ci sono. Della coscienza ambrosiana moderna ad esempio fan parte ormai i semi sparsi a piene mani dal Cardinal Martini. Oggi non si parla quasi più di lui. Forse è meglio così: potrebbe voler dire che ha permeato le insondabili profondità della nostra anima civica, vive e può produrre effetti benefici senza bisogno di citarlo. Fra quei semi c’è il “farsi prossimo”. Tale locuzione ha come esito esterno di aiutare gli altri, ma la sostanza vera è coinvolgere chi pronuncia quelle parole e attivarne la consapevolezza sociale. È un assumersi responsabilità umane precise. Il prossimo non è l’altro, sono io che provo compassione per chi incontro e ha bisogno, me lo carico sulle spalle, lo affido al titolare della locanda, pago e garantisco che salderò il conto alla fine quando sarà fatto tutto il necessario per rimediare al delitto dei briganti. 

La memoria viva e gli esempi possono costituire fattori d’un vivere meglio e di un rinnovamento dello spirito di convivenza, nelle piccole cose e nelle grandi scelte. La città è il luogo privilegiato in cui sperimentare la bontà di orientamenti e decisioni. L’infelicissima battuta di Feltri da cui siamo partiti può rappresentare l’icona di un atteggiamento. Una certa contemporaneità che si adegua in maniera piatta a un trend di tipo “social” può determinare una situazione che non lascia intravedere dopo quell’uscita uno sbocco di “dialogo costruttivo”, come si sarebbe detto neanche tanto tempo fa, cioè: cogliere l’occasione dell’infortunio giornalistico per porre il problema del traffico in una grande città come Milano, delle ipotesi di soluzioni condivise ai disagi (quali provvedimenti potrebbe assumere l’Amministrazione pubblica), dei comportamenti soggettivi che dovrebbero adottare singoli cittadini, siano essi ciclisti o automobilisti. L’altro modo è rappresentato dal fermarsi, dal porsi una domanda molto semplice: che cosa posso fare io. 

Il “provare compassione” potrebbe essere la molla per far cambiare passo a una Milano assuefatta, piena si sufficienza, accartocciata (con l’aria nazionale che tira!), frustrata dall’inadeguatezza dei servizi pubblici, un po’ dopata dall’esser divenuta meta turistica, soffocata dagli affitti alti (Aler? Case popolari? Edilizia residenziale pubblica, dove sono?), espulsiva degli studenti universitari ridotti intende, con gli oratori quasi senza preti. 

Sì, proprio: provare compassione per sé stessi, per la città nel suo insieme, per il ciclista divenuto icona di futuro sostenibile (piste ciclabili che non sempre però con criterio fan restringere le strade: taxi e ambulanze in corso Venezia e Buenos Aires) ma anche di riprovazione (sfrecciano sui marciapiedi incuranti di anziani e carrozzine insieme ai monopattini), per chi amministra e non riesce a governare il traffico, a far manutenzione delle strade, a disporre di servizi sociali adeguati e a  tutelare gli anziani (vedere la foto di largo Treves con il palazzo del fu-welfare del Comune abbattuto e l’area ceduta a privati stringe il cuore),  per le periferie, per i giovani ai quali avevamo fatto promesse mirabolanti durante il Covid poi non mantenute. 

A Siena campeggia l’Allegoria del Buon e del Cattivo Governo. Ai piedi di questa parte c’è la Giustizia umiliata, in catene (ogni eventuale cattivo pensiero su quanto sta facendo il Governo Meloni in materia è puramente casuale). C’è da ripartir di lì, risalire con lo sguardo ad un’altra parte della pittura, ritrovare la Securitas. Questa non è fatta dai decreti di Salvini, Meloni, Piantedosi ma da un’anima della città da riscoprire. Lorenzetti dipinse la Securitas come una donna in veste d’angelo che reca un cartiglio in cui è scritto «Senza paura ognuomo franco cammini. E lavorando semini ciascuno». 

Fino a che ci sarà la Civiltà Comunale a imporre l’ordine attraverso la Securitas, ogni uomo e ogni donna attenda tranquillamente ai propri compiti, perché i rei saranno puniti. Ma ciascuno deve fare la propria parte per il bene di tutti, così contribuisce a realizzare l’Ordine Pubblico. Questo non vuol dire “Stato di polizia”, come sembra intendere la destra destra (manganellate agli studenti, manette a chi fa sit in, multe da capogiro ai giornalisti), ma applicazione della Costituzione Repubblicana e antifascista secondo criteri di equità, libertà, giustizia sociale.

Marco Garzonio

 

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Tutti i campi sono obbligatori.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.


Sullo stesso tema





20 febbraio 2024

UNA CASA PER TUTTI?

Veronica Pujia






7 marzo 2023

I FATTI DEL LICEO MICHELANGELO A FIRANZE

Fiorello Cortiana



21 febbraio 2023

IL PROBLEMA DELLA CASA

Franca Caffa



7 febbraio 2023

LA CITTÀ DEI DUE TERZI

Bianca Bottero


Ultimi commenti