16 luglio 2024
L’URBANISTICA È MORTA. VIVA L’URBANISTICA!
Una disciplina in coma profondo
16 luglio 2024
Una disciplina in coma profondo
Le recenti vicende urbanistiche e edilizie milanesi si prestano a diverse considerazioni. D’ordine giuridico normativo, di prassi e comportamenti amministrativi, di atteggiamenti culturali e professionali. Certamente un intrico di questioni senza precedenti, che richiama in primis la responsabilità degli organi politici e tecnici delegati al rilascio dei permessi di edificazione e trasformazione urbana. Un quadro che mina la certezza del diritto e delle procedure autorizzative, con l’intervento della Magistratura sulla legittimità di diverse costruzioni.
Tutto ciò a valle di numerose norme dagli anni Novanta, con l’intento di fugare arbitrii e discrezionalità, snellire iter burocratici per adeguare le procedure al mutato contesto economico e sociale.
Milano dopo l’Expo ha inteso porsi all’avanguardia, attirando investimenti e grandi operazioni immobiliari propagandate come interventi di rigenerazione urbana. Una disinvolta deregulation, delegando ai privati il compito di programmazione e pianificazione urbanistica, che dovrebbe rimanere in capo all’Amministrazione comunale.
Così il Piano del Governo del Territorio si è allontanato dalla logica ordinatrice tra le parti, fondamentale per un razionale struttura morfologica e funzionale, delle costruzioni, delle infrastrutture e della rete dei servizi.
Di contro l’enfasi è stata posta sugli aspetti formali di una architettura autoreferenziale, celebrativa di un esibizionismo gratuito, opposto all’identità di una città ricca di tradizione e storia; anche con la sua architettura moderna riconosciuta per un rigore restio a processi di omologazione. Una sobrietà frutto di una realtà produttiva aperta anche a nuovi linguaggi dell’architettura, coniugati con l’innovazione tecnologica e un disegno urbano governato dal Comune. Come negli anni del grande sviluppo del dopoguerra e del boom economico, coi quartieri lnacasa e Gescal, e il Piano decennale degli anni Ottanta. La Milano di oggi, per fortuna, conta ancora di questo lascito.
Certamente con luci e ombre, ma che non ha paragoni con l’inconsistenza dell’urbanistica odierna.
Evanescenza anche teorizzata da esegeti di un “capitalismo democratico” che nel lassez-faire troverebbero la risposta ai bisogni e alle diseguaglianze. Certamente un dirigismo pubblico non sarebbe la risposta, ma la Municipalità è fondamentale per contemperare interessi, definire regole spaziali non sovvertibili da vacui sociologismi di un vitalismo urbano senza alcun vincolo funzionale.
È dato di leggere che la cosiddetta “unità di vicinato” non avrebbe più senso rispetto ai processi di socializzazione e integrazione urbana. Come dire che il verde sotto casa interessa poco, i servizi di prossimità anche, ammiccando quindi a un giovanilismo fino ad età adulta fatto di movide, scambiando il giorno per la notte, con lo spazio pubblico da utilizzare a proprio arbitrio.
Così l’urbanistica è data per morta, e parlarne sembra cosa vetusta rispetto a osannati quattro provinciali grattacieli.
L’urbanistica è certamente morta nei ghetti delle megalopoli. Ma svanisce anche nei casi di più ridotta misura come Milano, dove il suo destino è anticipato dalla morte degli urbanisti. Cioè, di chi dovrebbe possedere cultura e tecnica per progettare gli spazi alle diverse scale.
Certamente l’urbanistica non può risolvere problemi socioeconomici strutturali e squilibri territoriali di area vasta, che solo l’indirizzo politico è in grado di prospettare. Ma è un addendo importante, e la storia della città lo dimostra, anche indipendentemente da regimi e forme di governo.
Principi ergonomici e funzionali, che rimandano ad aspetti antropometrici, a geometrie e misure, a densità di occupazione del suolo, a standard abitativi e dei servizi, sono incontrovertibili, come di ogni disciplina che è tale se fondata su uno statuto di regole dettate dalla ragione e dalla pratica. Ogni disciplina si evolve, ma può anche involversi quando si abbandona una visione critica e pragmatica.
Così il PGT si riduce a una generica enunciazione di principi, di auspici e declaratorie ambientali, in una sostanziale indifferenza localizzativa e funzionale, con trasferimenti volumetrici senza un disegno e un tracciato ordinatore della maglia urbana. Scompaiono piazze, viali, luoghi e identitari edifici pubblici, cioè quanto nel tempo ha caratterizzato la città nella sua permanenza.
Viene meno, quindi, la scala dei Piani attuativi, dove le enunciazioni generali si possono tradurre nel rapporto tra le parti, tra spazi pubblici e privati, con la rete dei percorsi e il contesto ambientale. Un esercizio a fondamento di ogni progetto, tanto più dell’urbanistica col compito proprio di queste relazioni.
A tale orizzonte si sono sostituiti approcci regressivi senza rapporti tra i diversi interventi, sostituendo buone pratiche con le fasullaggini della “urbanistica tattica”, pittando marciapiedi, con un tavolo in cemento di ping-pong in uno spartitraffico, e striminziti alberelli in bidoni di plastica.
Risorse sprecate di pannicelli caldi di un diffuso degrado, con sgangherati dehors con il pedone a fare lo slalom. Difficile per chi abbia competenze e sensibilità non osservare queste criticità e, tornando al “caso Milano” delle più recenti vicende, non osservare che si è perso il bandolo della matassa quando è dato vedere edifici di grande altezza sorgere da cortili o in sostituzione di altri di ridotte dimensioni; senza un piano attuativo e con iter autorizzativi analoghi a quelli di piccole opere. Tante, quindi le responsabilità, in primis amministrative ma anche professionali e della formazione dell’urbanista. L’urgenza di ritrovare uno smarrito senso civico, fondamentale per una città più giusta e bella.
Fabrizio Schiaffonati
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