2 luglio 2024

LUCIANO PATETTA

Un rimpianto


Imm. Cosonni

C’è maestro e maestro. A distinguere Luciano Patetta era l’inclinazione antiretorica (e antiaccademica). Tanto limpida da apparire un lato del carattere. Ma vi si potrebbe vedere riflesso anche lo spirito di una certa Milano (ora alquanto offuscato), forgiato di generazione in generazione soprattutto nei luoghi di lavoro. Nel caso di Patetta ha probabilmente lasciato il segno la frequentazione, da ragazzo, dei cantieri edili al seguito del padre costruttore e progettista. Ma anche, dopo la laurea, i tirocini, prima, nello studio di Giancarlo De Carlo e, poi, in quello di Franco Marescotti e Giuliano Rizzi.

Dopo aver lavorato in proprio come architetto (con esiti allineati al miglior professionismo colto milanese), la curiosità e la vivacità intellettuale lo spingono attorno al 1968 a inoltrarsi nel campo della storia dell’architettura. Una scelta coraggiosa e definitiva: un modo di reinventarsi, anche se sorretto dal bagaglio accumulato nelle esperienze progettuali. Si può dire che non abbia avuto maestri diretti. 

Anche perché i professionisti che insegnavano nella Facoltà di Architettura di Milano, con l’eccezione di Ernesto N. Rogers, non tenevano lezioni ex-cathedra: interpretavano la didattica come una prosecuzione dello studio professionale, senza i vantaggi della “bottega”. Il grosso del lavoro era infatti affidato agli assistenti (che, non a caso, tireranno la volata al movimento degli studenti nell’imporre un radicale cambiamento della didattica, con la ricerca al centro della formazione). Semmai, nel caso di Patetta, a schiudere l’orizzonte è stato il lavoro nella redazione milanese di “Controspazio”, spalla a spalla con Ezio Bonfanti, Benigno Cuccuru e Virgilio Vercelloni, scelti con grande fiuto da Paolo Portoghesi.

Gli studi di Patetta spazieranno dall’età contemporanea, all’eclettismo, al periodo neoclassico, per concentrarsi negli ultimi decenni sull’Umanesimo e sul Rinascimento, con ricerche sul contesto milanese che restano delle pietre miliari. 

Una simile ampiezza del campo di indagine e una tale libertà di movimento sarebbero oggi difficilmente praticabili da un giovane ricercatore. L’attacco riuscito all’autogoverno dell’università con la riforma Gelmini (2008-2010, IV governo Berlusconi); i sistemi di valutazione del lavoro dei docenti (Anvur), tanto ferrei quanto ottusi; i criteri di assegnazione delle risorse che premiano la capacità dei docenti di attrarre finanziamenti (mettendo in grandi difficoltà i settori delle scienze umane e sociali); il peso assunto dall’apparato amministrativo degli atenei: tutto questo in pochi anni ha portato alla chiusura del periodo aureo dell’università italiana: quattro decenni che hanno il loro perno nell’istituzione dei dipartimenti (1980). 

L’università in Italia è diventata un luogo triste, governato da un pilota automatico che ha come solo obiettivo quello di limitare, fino quasi ad azzerarlo, il pensiero critico e la capacità di definire in piena libertà obbiettivi di ricerca e formazione imperniati sui valori civili.

Figure di docente e ricercatore come quella di Luciano Patetta, oltre che per il talento della persona, si spiegano anche per l’humus, frutto di un lavoro e di un impegno collettivo che hanno creato le condizioni per cui ricercare e insegnare erano momenti di invenzione e di felicità, tanto per i docenti quanto per gli allievi (l’esperienza della facoltà di Architettura Civile alla Bovisa aveva, a questo riguardo, un carattere paradigmatico: così poco gradito ai potenti di turno da determinarne la chiusura).

In Patetta lindore e incisività nella scrittura sono lo specchio di un metodo rigoroso. Lo guida un principio: l’ascolto dell’architettura in corpore vili: l’indagine condotta sui corpi di fabbrica, in un serrato confronto con i documenti, i disegni in primis (tra le sue imprese intellettuali c’è la rivista “Il disegno di Architettura”, giunta al numero 47). E, non meno rilevante, l’altro principio: l’importanza data al contesto (la sua conoscenza di Milano, e non solo, lo porterà anche a misurarsi con la scrittura narrativa, con prove interessanti).

Le pubblicazioni di Luciano Patetta rimarranno a testimoniare della fecondità del suo lavoro di ricerca. Assai più problematico è conservare testimonianza del suo stile nell’insegnamento e nella conversazione: quel tocco di leggerezza che si svelava in un sorriso e, talora, in una battuta di spirito. Era la sua lezione più sottile: l’invito a praticare la conoscenza senza mai perdere di vista relatività e misura. Che sole possono dare alla ricerca la capacità di accogliere l’inatteso.

Giancarlo Consonni

In parte già pubblicato su Il Manifesto

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  1. claudia guglielmina capursoUn riconoscimento dovuto, scritto con la consueta incisività ed eleganza dalla penna di Giancarlo Consonni. Riconoscimento non solo a un ricercatore rigoroso, a un docente impegnato ma a un’intera generazione di architetti votati ( e sacrificati) all’amore per la conoscenza, per la continua innovazione e sperimentazione, che le caste al potere ( o ai suoi margini) hanno voluto cancellare ( o meglio “oscurare”) “Utopisti” si dice oggi , con un certo spregio, dando vita così a un incredibile caso in cui “la realtà vissuta” diviene “utopia”… Un invito a riflettere e perché no a dibattere.
    4 luglio 2024 • 12:08Rispondi
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