18 giugno 2024
LA TORTUOSA PROSPETTIVA DEL SINDACO D’ ITALIA
Evoluzione e involuzione dei pubblici poteri locali
18 giugno 2024
Evoluzione e involuzione dei pubblici poteri locali
La spinta a distorcere il quadro costituzionale mediante il cosiddetto “premierato” si avvale tra l’altro della suggestione di parodiare il “sindaco d’Italia”, presentando l’attuale legge elettorale comunale come modello da imitare. L’elezione diretta del sindaco, che offusca la complementare elezione diretta del consiglio comunale, viene esaltata come fattore di efficienza e stabilità.
Vale allora la pena di ripercorrere l’evoluzione della forma istituzionale dell’ente locale per considerare le trasformazioni intervenute e valutarne ex-post pregi e difetti. La base è la “legge comunale-provinciale” del 1915 derivata dalla legge Lanza del 1865 che, superata la parentesi totalitaria del fascismo, si prolungherà nell’epoca repubblicana fino al 1990.
La sua lunga e pervicace durata si inserisce nella concezione centralistica che era prevalsa nella formazione dello Stato unitario. Le opposte visioni politiche di Cavour e Mazzini si erano paradossalmente incontrate proprio su questo punto, vincendo le idee federalistiche di Cattaneo. Sarebbe toccato poi alla dottrina politica di don Sturzo affacciare una diversa concezione dello Stato che rivalutasse il ruolo dei comuni e dei corpi intermedi.
Pertanto ancora fino al 1970 tutte le delibere dei consigli comunali, dirette o per ratifica delle omologhe di giunta, sono sottoposte al controllo di merito del prefetto, che ne conferma o boccia l’esecutività. Solo dopo l’introduzione delle regioni l’intervento prefettizio si sarebbe limitato al controllo di legittimità. Resta intatto il ruolo di sorveglianza del segretario comunale, sentinella del sistema burocratico facente capo al ministero degli interni.
L’aria cominciò a cambiare negli anni ’70. Il Decreto 616/76 definisce il comune “ente generale di rappresentanza”, ingloba i cosiddetti “enti inutili” sopprimendo i vari ECA (ente comunale di assistenza), i patronati scolastici, le OMNI (opera nazionale maternità e infanzia), ecc. Inoltre entrano in vigore la legge Bucalossi (1976) che colloca in capo al comune lo ius aedificandi, la legge sul decentramento amministrativo (1978), la riforma sanitaria (1979) che definisce le USL “comuni singoli o associati”.
Tuttavia la obsoleta legge comunale-provinciale viene superata soltanto nel 1990 (anche sotto la spinta autonomistica della Lega originaria di Bossi). La legge 142 segna un punto di svolta per un nuovo ordinamento degli Enti Locali. Tra le principali novità troviamo: la potestà statutaria e regolamentare, l’istituzione del difensore civico, una prima divisione dei compiti fra giunta e consiglio, una prima responsabilizzazione dei dirigenti (pareri obbligatori).
Importanti inoltre le innovazioni riguardanti il contesto sovra-comunale: l’attribuzione alle province dei PTC (piani territoriali di coordinamento) per raccordare gli strumenti urbanistici locali, la istituzione (entro 6 mesi!) delle città metropolitane, le comunità montane, le unioni tra comuni, gli accordi di programma. Contestualmente veniva approvata la legge 241 (curioso palindromo!) sulla trasparenza e accesso agli atti, la responsabilità e la tempistica delle procedure, l’autocertificazione.
Siamo dunque arrivati alle soglie dei fatidici anni ’90 con lo sconvolgimento delle strutture e dei rapporti politici: il PCI si auto-scioglie con la caduta del muro di Berlino, il PSI e la DC soccombono sotto i colpi di “mani pulite”. I partiti di massa si decompongono dando luogo a “cose” indefinite e commutabili, personalistiche ed elettoralistiche. Le ideologie fondanti vengono bandite e confuse in un “pensiero unico” debole e acritico.
Tale scompiglio si riflette sul funzionamento dei governi locali. Se prima la formazione delle maggioranze, deputate all’elezione indiretta del sindaco ed alla stabilità dell’amministrazione, era frutto di difficili trattative tra le segreterie dei partiti, ora con la dissoluzione degli stessi e la scomposizione dei gruppi consiliari diviene impossibile.
Il colpo di coda della maggioranza parlamentare morente formata da Dc-Psi-minori, col neonato PDS all’opposizione altalenante, approva pertanto la legge 81/1993 che prevede: l’elezione diretta del sindaco, la nomina degli assessori revocabili e incompatibili con i consiglieri eletti; la distinzione rispetto al consiglio che elegge un proprio presidente; il programma ufficiale da depositarsi unitamente alle candidature.
Vengono tuttavia introdotti tre correttivi per attenuare la svolta dell’uomo solo al comando: la durata del mandato ridotta a quatto anni, il dimezzamento delle giunte, il limite del doppio mandato. I primi due sono saltati quasi subito (legge 265/99 Napolitano-Vigneri), il terzo rimane tutt’ora in discussione!
Ma il principale correttivo politico, ovvero la capacità dei partiti di investire nell’organo democratico di indirizzo e controllo, ovvero il “parlamento” consiliare, è venuta meno purtroppo in modo pressoché irreversibile. I quadri ritenuti emergenti vengono incaricati assessori, non eletti ma più visibili e meglio retribuiti. I consiglieri invece perlopiù relegati al grado di peones, spettatori più che protagonisti di un dibattito che si svolge altrove, nelle cronache e negli show mediatici.
Sempre nel 1993 entra in vigore il decreto 29 sulla disciplina del personale, basato su: principio di efficienza-efficacia-economicità, controllo della spesa, responsabilità dei dirigenti, piante organiche e inquadramenti più flessibili, contrattazione collettiva, uffici di relazioni col pubblico.
Le leggi Bassanini del 1997/98 non sono altro che l’assemblaggio e la ricomposizione dei pezzi di riforma degli anni ’90, nel tentativo di rendere organico e funzionale l’assetto istituzionale e amministrativo del governo locale, con significative definizioni: il principio di sussidiarietà verticale che vede la “comunità locale” come cellula dell’ordinamento, la legalità formale da coniugare con un sostanziale orientamento al risultato, il superamento degli assessorati e delle ripartizioni a compartimenti stagni, la distinzione dei ruoli politici e tecnici con la piena responsabilizzazione dei dirigenti e del segretario comunale garante della legittimità formale, l’istituzione del direttore generale scelto per spoil system.
Ma la debolezza e la vacuità della politica riscontrata nel millennio entrante non si rimediano per legge! Di fatto si è instaurato un patto scellerato tra burocrazia e ceto politico. La prima per sfruttare in proprio il potere derivante dalle competenze tecnico-burocratiche. Il secondo per adagiarsi comodamente sull’alleggerimento delle incombenze amministrative per dedicarsi meglio alle relazioni mediatiche ed alla cura dell’immagine.
L’epilogo infine con la legge Delrio del 2014, tesa a smantellare ogni credibile “ente intermedio” tra sindaci e governatori regionali, rovesciando pertanto il centralismo statale iniziale in una sconsiderata e pressoché assoluta autonomia per i circa 8.000 grandi, medi e piccoli comuni, ciascuno dei quali dominato da un Sindaco che risponde solo al giudizio divino (o talvolta ad un giudice più terreno), sopratutto in materia di uso e/o abuso del territorio.
Milano, come sempre anticipatore delle prospettive nazionali, rappresenta bene il modello di premierato personalistico e di subalternità parlamentare che l’attuale indirizzo politico prevalente vorrebbe imporre all’intero Paese.
Valentino Ballabio
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