7 maggio 2024

PRIMO MAGGIO

C'era una volta l'internazionalismo proletario...


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Il Primo Maggio nasce come Festa Internazionale dei Lavoratori, in ricordo degli operai assassinati a Chicago mentre manifestavano per la giornata lavorativa delle 8 ore. Diritti, solidarietà, stragi, il paradigma di un doloroso processo di emancipazione sociale universale ancora oggi lontano dal compiersi. Non si era dovuto attendere il nostro tempo per comprendere la dimensione internazionale del conflitto sociale e la necessità di unirsi oltre i confini  per il riconoscimento dei diritti più elementari.

La giornata delle 8 ore (otto per lavorare, otto per la socialità ed otto per il riposo) era il manifesto programmatico che comprendeva in sé la promessa di una vita possibile non solo per i lavoratori, ma anche per gli altri strati sociali, le diverse anime, bisogni e sensibilità. A fine ottocento si faticava ancora ad emergere da situazioni dickensiane, dove, ai lavoratori maschi ed adulti, più costosi e riottosi, erano spesso preferite donne e minori, più docili ed a buon mercato. Sotto la  bandiera “Proletari di tutto il mondo unitevi”, pareva davvero che solo il lavoro avesse forza sufficiente per indicare una prospettiva a tutta un’umanità che cercava riscatto sociale. Un quadro oggi minoritario in Occidente ma replicato largamente nei diversi “mondi” della scena globale.

Primo maggio festa laica e spirituale, anche. Quell’afflato universale, quel sentirsi semplicemente uomini e donne, fratelli e sorelle, uniti dalla “religione” del lavoro oltre i confini geografici, politici e linguistici del tempo, non era nuovo. Riprendeva un’utopia abbracciata duemila anni prima con San Paolo “Non vi è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, .. perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Un Cristo che si circondava e sceglieva solo persone del popolo (“più difficile che un cammello …”). Fratellanza internazionale, spiritualità comunitaria e Sol dell’Avvenire formavano il quadro, ingenuo ma potente e visionario, che offriva  il nuovo corpo mistico alle speranze della società nascente: un mondo di “eguali senza padroni”.

Trascorsi secoli, distrutta l’Europa due volte, tramontati gli imperi coloniali, mutato in incubo il sogno del primo stato socialista, consumato perfino il lessico ardente della fede socialista, ci si chiede oggi se sia ancora attuale quel sentimento ed ancora vitale il suo soggetto, come entità sociale ed attore del progresso civile universale. Per molti, maggioranza anche nel campo democratico, la questione neppure si pone più. Travolta dal crollo degli stati socialisti, dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica, la classe operaia sembra esistere “poco in sé e nulla per sé”. Ridotti numericamente, polverizzate le forme del lavoro, dimenticata la funzione politico culturale, perduto lo stesso concetto di valore–lavoro, gli operai occidentali si sono smarriti e cercano a destra riconoscimento

Che senso può avere allora oggi dire “Internazionalismo Proletario”? Sembrerebbe nessuno se, paradosso massimo, il grande capitalismo finanziario non avesse preso su di sé proprio la missione affidata da Marx al proletariato, unificando tutto il mondo in un solo spazio globale dove i capitali si muovono senza vincoli sulle reti telematiche, le conoscenze vorticano sui social e le merci corrono lungo le direttrici mondiali della logistica. La profezia marxiana si avvera, ma ahimè rovesciata. Non “Internazionalismo Proletario”, ma “Capitalismo globale”. Non un mondo di eguali senza padroni, ma un mondo di padroni senza eguali. E’ questo il carattere specifico della fase storica che stiamo vivendo? E  cosa resta del Primo Maggio: stanche ritualità sindacali e concertoni?

Anche nel nostro tempo, il senso di solidarietà internazionale è ben vivo, ma sembra toccare piuttosto sensibilità e soggetti diversi dal lavoro: ambiente e giovani, diritti civili e minoranze, liberazione e donne, migrazioni ed accoglienza, formano una multiforme costellazione di valori attorno a cui si aggregano moltitudini globali che non trovano più nella rivoluzione del lavoro il contesto dove collocarsi come parte di un desiderio di cambiamento complessivo. Ci si potrebbe però chiedere se questo nuovo spirito globale (zeitgeist) sostituisca quello antico proletario, senza lasciarne traccia, o se arricchisca con questo lo scenario della cittadinanza globale. Vorrei spendere qualche riflessione e  mettere in dubbio la tesi che vede caduto il movimento dei lavoratori come soggetto capace, pur nelle condizioni mutate, di essere parte essenziale di solidarietà universali.

A ben vedere, la questione operaia, cacciata dalla porta principale, sembra rientrare dalla finestra. La principale contraddizione del processo di globalizzazione che sembra distruggerla, si trova proprio nell dinamismo inesausto con cui il capitale ricerca ovunque le migliori condizioni per il profitto: competenze ed infrastrutture, certo, ma molto più spesso bassissimi salari, assenza di vincoli ambientali e, s’intende, zero diritti. Come nell’ottocento.

La deregulation mondiale ha abbattuto le barriere nazionali, lasciando il campo al “libero mercato” universale, spazio nuovo dove “contrattano” due soggetti, apparentemente pari ma quanto diversi per forza e libertà di movimento. Da un lato i capitali ormai apolidi, dall’altro i soggetti nazionali (stati, forze politiche, sociali e sindacali), liberi i primi di spostarsi dove, quando e come desiderano secondo la “razionalità del calcolo capitalista”, obbligati i secondi a stare sul territorio e ad adeguare la “razionalità politico sociale “al volere dei primi. Indebolite le Organizzazioni Internazionali, sulla scena del mondo resta il messaggio ecumenico della Chiesa cattolica.

Se, in questo quadro tirato con l’accetta, ci si chiede se esista ancora la classe operaia, si potrebbe rispondere con la canzone: “dipende, tutto dipende, da come guardi il mondo tutto dipende(*). Se si guarda solo alle “ridotte” italiana ed europea, la classe operaia è in scacco, dove più e dove meno. Con i capitali “liberati” dai vincoli nazionali, gli impianti si spostano verso il “terzo, quarto e quinto mondo”. Decadono capacità contrattuale, salari e condizioni di lavoro. Resta un’ostinata ma sempre più flebile resistenza ed infine la guerra tra poveri. Ma per cogliere il vero nella sua complessità lo sguardo deve aprirsi al mondo intero, “scoprendo” che quegli stessi capitali che licenziano in Occidente arruolano centinaia di milioni di contadini nelle fabbriche cinesi, indiane, vietnamite, o brasiliane o messicane. Così, mentre in Occidente si narra di classe operaia in estinzione, nel mondo le sue fila si moltiplicano (solo in Cina 120 milioni di operari “migranti”, i più sfruttati e senza diritti), e mentre da noi si racconta di capitale che produce da sé il suo valore (partenogesi del profitto), le filiere produttive globali (dal “maturo” tessile alle smart techno-diavolerie) comprano forza lavoro a 10 e vendono prodotti a 100, ben candidi però i brand che escono dalle eleganti lavatrici del social e greenwashing.

Ed allora, se la globalizzazione condotta al ritmo del capitale crea su scala mondiale più classe operaia di quanta non ne elimini, se la creazione di valore torna alla matrice marxiana del lavoro, se la diffusione universale del capitalismo riduce le differenti condizioni nazionali, se in definitiva oggi si replica, con infinite variazioni su scala globale, il canovaccio recitato nell’ottocento su scala nazionale, ci si potrebbe chiedere se sia davvero lecito intonare il de profundis per la classe operaia ed il suo internazionalismo.

La ricerca spasmodica di maggiori profitti strappa e porta di peso nella contemporaneità vastissime aree del mondo rimaste finora ai margini, generando imponenti e nuove soggettività sociali e culturali. In questo movimento potrebbe aprirsi lo spazio per la politica universalistica del nuovo tempo, per una ripresa della consapevolezza del ruolo centrale svolto dal lavoro nello sviluppo del genere umano, le basi per offrire alla globalizzazione il tassello essenziale mancante: la cittadinanza universale del lavoro. Uno status per offrire a qualsiasi essere umano pari condizioni e diritti in qualsiasi punto del pianeta si trovi.

Nel 1897 a Chicago le otto ore. Nel mondo di oggi, la cancellazione dell’orrore del lavoro minorile, delle forme parossistiche di inquinamento ambientale, dell’assassinio sistematico delle rappresentanze sindacali, dei ritmi insostenibili e suicidari  delle fabbriche cinesi, sono ancora tutela universale dei lavoratori, sottraendoli alle logiche della “guerra tra poveri”. Chiedersi allora se possano convergere verso parole d’ordine unificanti le tematiche del lavoro con quelle dell’ambiente, dei diritti, della parità di genere, non pare fuori luogo, anzi, potrebbe formare il paradigma aggiornato dove tradizione operaia e sensibilità contemporanee (diritti, genere e sopravvivenza della specie), si intrecciano, sostenendosi e traendo senso l’una dalle altre.

Il problema, per noi contemporanei, sono i tempi lunghissimi di un passaggio epocale che esige grandi trasformazioni culturali, ed altrettanto complesse mediazioni dell’eredità politico sindacale occidentale con le mille ed una identità nazionali e locali dell’oggi.

Il problema è anche quello della ricerca e sperimentazione di nuove forme organizzative transnazionali, ma ancor di più della capacità della classe operaia occidentale di non farsi risucchiare dal gorgo paralizzante della difesa degli interessi nazionali, limite già tradotto in tragedia nel 1914.  

Un sogno ad occhi aperti, forse, ma se è vero che le differenze ancora contano e quanto (anche nei conflitti), appare difficile negare la potente deriva di fondo che vede il mondo impegnato in un’accelerata convergenza produttiva, tecnologica, sociale e culturale,  fondata su grandi masse di operai e lavoratori con pochi o nulla diritti.

E se oggi è difficile dire “Internazionalismo proletario” senza provare un profondo disagio nella distanza tra la nostra scettica condizione odierna ed il sapore ottocentesco di quelle parole, non possiamo negarci la possibilità che la visione universale dell’umano fondato sul lavoro trovi con le nuove risorse anche nuove parole adatte ai tempi.

Giuseppe Ucciero

(*) Jarabe de Palo, che non è un filosofo ma solo un cantante popolare



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