21 febbraio 2023
ELEZIONI REGIONALI: IL POPOLO HA PARLATO, MA NON HA DETTO
Oltre il dato elettorale, rimane senza risposta la domanda di cambiamento
21 febbraio 2023
Oltre il dato elettorale, rimane senza risposta la domanda di cambiamento
Regionali 2023: il popolo ha parlato ed il verdetto pare chiaro. Eppure, come l’oracolo greco, il significato sembra situarsi oscuramente oltre il detto. E’ vero, la destra ha vinto e le opposizioni hanno perso, seccamente e peggio di quanto previsto o sperato. Venti punti separano Majorino da Fontana, nonostante il disastro del covid. Lontana, dispersa, la Moratti. Sembrerebbe tutto chiaro, definito e definitivo, senza alibi né speranza. Solare.
Eppure, le “parole” (i voti dati) non raccontano del senso più profondo del vaticinio popolare, dove il detto appare “contraddetto” dal fatto o se si vuole dal non detto. Fuor di metafora, il “non detto” va ricercato nell’oceanica astensione dal voto, tanto estesa da lasciare a casa sei elettori su dieci, silenti.
Un silenzio assordante però, arcobaleno dei sentimenti nel distacco e nella disaffezione: indifferenza, disprezzo, disillusione, rancore, rabbia, disperazione. C’è n’è per tutti ed in tale misura da incrinare, non la regolarità formale, ma la qualità sostanziale del voto popolare: Fontana è stato votato da 2 elettori su dieci, e tanto basta per aprire una voragine sulla piena legittimità politica del suo governo regionale. Una profonda crisi di rappresentanza colpisce l’intero sistema politico, senza salvare neppure chi, in tempi ancora ravvicinatissimi, raccoglieva ad ampie bracciate le messi del dissenso. Che ne è del 33% del M5S e cosa del 38% della Lega? E se oggi tocca a Giorgia Meloni di intercettare quel desiderio di cambiamento, neppure può nascondersi che le sue alte percentuali sono pur relative ad un mare elettorale sempre più ristretto, ormai lago interno.
Una crisi di rappresentanza che mette in questione, per alcuni, le forme del sistema politico istituzionale e per altri i contenuti della proposta politica disponibile. Fatto è che la distanza tra società civile e società politica è divenuta quasi incolmabile. Quale la natura del male? L’architettura istituzionale o la visione di società proposta?
Dal fatale 1992, per rispondere all’indebolimento della partecipazione popolare si modificano assetti ed equilibri del sistema politico istituzionale, nelle articolazioni locali e nazionali. E’ innegabile: da quella vicenda sono venute torsioni, se non autoritarie, certamente finalizzate a creare un legame diretto tra il popolo ed il “demiurgo”, non importa se Sindaco o Presidente di Regione, bypassando il sistema dei partiti, origine di tutti i mali. Eppure, anche queste innovazioni negli ultimi tempi trovano poco successo, anzi, la partecipazione crolla.
Su questo crinale dell’innovazione istituzionale si colloca anche la riforma presidenziale dello Stato, che passando da Mariotto Segni (figlio d’arte) è giunta fino a Giorgia Meloni. Per altri, l’insoddisfazione popolare, il crollo del voto ai seggi, è piuttosto segno della inadeguatezza e della crisi dei contenuti della proposta politica: soffocata dal groviglio delle compatibilità fissato dal sistema finanziario, resta indietro e come paralizzata di fronte al desiderio di cambiamento e di tutela attesi da larghi strati popolari.
Una camicia di forza, che la stessa Giorgia Meloni, massimizzato a proprio favore il consenso “contro”, indossa felice e senza neppure troppe richieste al sarto di Palazzo Chigi. A stretto giro, la sfida sul cambiamento profondo della proposta politica attraversa la sfida tra Bonaccini e Schlein.
Il primo campione di un riformismo “dolce”, l’unico supposto possibile nel contesto forgiato irrimediabilmente da storia e geografia nazionali ed internazionali: sfumato oltre l’orizzonte il sol dell’avvenire, resta praticabile un modus vivendi che accetta senza riserve le compatibilità capitalistiche e prova, diciamo prova, a temperarne gli effetti sulla condizione del lavoro e sul sociale.
Il fatto però è che questa proposizione “socialdemocratica” trova come principali sostenitori i campioni delle riforme neoliberiste ispirate da Matteo Renzi, uomo politico del passato, “autorottamatosi” finalmente dopo aver provato a disfare il PD proprio come partito socialdemocratico. “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” e se parli di socialdemocrazia con Guerrini e Lotti, un dubbio forte viene e poco importa alla fine se il bravo Cuperlo si accoda, affascinato dalla residua forma partito piuttosto che dal cambiamento culturale che ha pur sempre evocato.
Schlein ha buone probabilità di successo, certo superiori a quelle dell’inizio ed esprime con maggior chiarezza e forza il desiderio di cambiamento.
Attraggono la personalità fresca, giovane ed assertiva, le parole d’ordine più vicine a mondi, quelli dei giovani e delle donne, sottorappresentati nel PD e desiderosi di un nuovo e più potente protagonismo, espressivo dei nuovi tempi. In lei la consapevolezza di un cambiamento degli equilibri sociali è condizione della stessa possibilità di difesa dell’ambiente, principale sfida esistenziale e quindi politica.
Intrapresa, ma non ancora completata, la saldatura con il mondo del lavoro e della rappresentanza sindacale, che pur attento sui temi dei diritti e del precariato, resta geneticamente diffidente verso l’approccio movimentista da cui tuttora la piattaforma Schlein appare condizionata. Forse ci deve dire ancora qualcosa.
Le centrali della galassia (amministratori, cooperative, sindacato..) su cui si articolava e si articola tuttora l’eredità “socialdemocratica” del partito sono incuriosite ma restano in attesa di capire meglio. Per ora vanno sull’usato sicuro, senza troppe domande sulla direzione di marcia. Business as usual.
Un amico mi invita a leggere questa dialettica con occhiali novecenteschi, dove potremmo rappresentare il primo come “migliorista” e la seconda come “ingraiana”, stretti tra un possibile troppo schiacciato sul presente ed un futuro troppo intriso di sogno e di mito partecipativo. Due mondi, due visioni, due sensibilità, anche allora in cerca di una sintesi, quella che non seppe, o non potè, trovare un segretario, quanto amato, ma troppo ancorato a schemi oramai fuori uso.
Il ricordo è intrigante ma opinabile. Personalmente, resto convinto che Schlein possieda capacità di futuro e soprattutto di parola convincente verso mondi allontanati dalla politica che nessun altro possiede e che la sua proposta sia un prezioso capitale politico da non disperdere. Un capitale unico che può ri-abilitare una connessione di senso con chi ormai non ha più fiducia in nulla e che per questo si è allontanato dal voto. Al tempo stesso, si deve pure osservare che il consenso a Schlein è massimo nelle realtà urbane (Roma e Milano, prima di tutto), replicando per ora la debolezza strutturale del consenso democratico sul territorio.
Domenica 26 febbraio il Partito Democratico si gioca la pelle, cosa che di per sé potrebbe anche poco interessare all’elettore silente.
Il fatto però è che al difuori del Partito Democratico è rimasto poco o nulla, tanto che chi è uscito a sinistra se ne torna oggi un po’ abbacchiato e chi immaginava un partito diverso a destra si arrabatta con percentuali insufficienti a reggere un disegno politico alternativo.
L’oracolo popolare ha parlato, ma il non detto prevale sulla superficie apparente delle parole. La stanca ripetizione del rito elettorale troverà una replica alle primarie oppure soffierà di nuovo la voglia di partecipazione e cambiamento?
Giuseppe Ucciero