16 marzo 2019
MILANO 2030, IL PGT PER LA MILANO CHE VERRÀ
“Comprendere il bisogno, è la condizione primaria per il progetto.”
16 marzo 2019
“Comprendere il bisogno, è la condizione primaria per il progetto.”
Il 5 marzo 2019 è stato adottato il nuovo PGT. Da quel giorno è iniziato il periodo in cui la cittadinanza può presentare le proprie osservazioni (vere e proprie proposte di modifica), che se accettate andranno a integrare e cambiare lo strumento urbanistico in vista della sua approvazione finale.
Quanti cittadini sanno che cosa è il PGT di cui leggono sui giornali e sentono in TV? Quanti pensano di aver un ruolo? Il Palazzo non lo dice, ci proviamo noi.
Senza tediarvi troppo, proverò nella prima parte dell’articolo a spiegarvi cosa è e come funziona il PGT di Milano. Cercherò poi di ragionare su cosa c’è o ci dovrebbe essere dietro uno strumento del genere, lasciando ad altri l’analisi delle novità di questo PGT. Serve tempo per digerirsi tutto il malloppo!
Provate a seguirmi. La legge regionale 12/2005 ha adottato il PGT (Piano di Governo del Territorio) come strumento urbanistico, in sostituzione del PRG (Piano Regolatore Generale) utilizzato a Milano sin dal 1889 per disciplinare le trasformazioni e lo sviluppo fisico e morfologico del capoluogo lombardo. In realtà il PRG nella sua forma attuale è figlio della legge dello stato 1150 del 1942, la legge Fondamentale dell’Urbanistica. Nella maggior parte delle regioni italiane il PRG è lo strumento urbanistico utilizzato ancora oggi, ma in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Campania le rispettive leggi regionali hanno introdotto nuove modalità per la redazione dei piani urbanistici.
Vi risparmio il confronto tra il PRG e il PGT e passo subito a raccontarvi come funziona il PGT di Milano.
Il Primo PGT a Milano era stato redatto dalla Giunta Moratti a inizio 2011 e revocato con un contorsionismo degno di un grande azzeccagarbugli dalla Giunta Pisapia alla fine dello stesso anno, in modo da poterlo riapprovare modificato senza rifarlo da capo.
Il PGT si struttura in tre strumenti principali: il Documento di Piano, il Piano del Servizi e il Piano delle Regole.
Il Documento di Piano (DdP) è un documento di tipo strategico e programmatico, ha una durata di cinque anni e non produce effetti sul regime giuridico dei suoli. Detto in parole povere, nel Documento di Piano si dice (o si dovrebbe dire) che idea di città si vuole realizzare e si individuano le grandi aree di trasformazione (per esempio gli Scali Ferroviari), ma non si indica, se non in casi specifici, come si procederà, con quali norme o regole. A questo serve infatti il Piano delle Regole.
Il Piano dei Servizi (PdS) è un documento che disciplina la dotazione di servizi (pubblici o privati ma di interesse pubblico) registrando quelli esistenti e indicando dove realizzare quelli futuri. In termini più semplici nel Piano dei Servizi sono elencati tutti quegli elementi che a varie scale sono di aiuto e supporto alle necessità e ai bisogni dei cittadini (scuole, ospedali, farmacie, il trasporto pubblico e i parcheggi, i parchi e i giardini, e così via). Il passaggio che ne consegue è che nel Piano dei Servizi troverò anche quanti nuovi servizi sono necessari e dove vanno creati. Questa è una delle novità più rilevanti introdotte dalla Legge Regionale 12/2005 per cui si abbandona la logica dello standard pianificato in termini quantitativi a partire dai vincoli, sostituendola con il concetto di servizi da fornire in base alle necessità contingenti.
Il Piano delle Regole (PdR) è il documento che norma le trasformazioni di tutto il territorio urbanizzato (il TUC) ad eccezione dei grandi progetti urbani (che sono indicati nel Documento di Piano). Questo documento non ha una scadenza, può essere modificato innumerevoli volte e ha effetto sul regime giuridico dei suoli. Cioè quello che dice è legge!
In un certo senso è il documento più importante, perché sancisce cosa si può fare, come va fatto e soprattutto dove lo si può fare. Per capire il funzionamento di questo meccanismo bisogna prendere da una parte la cartografia, ovvero le mappe di piano che con colori e simboli suddividono la città in tante micro o macro zone. A ogni colore (o campitura, se vogliamo essere più tecnici) corrisponde un articolo contenuto nelle norme tecniche del PdR, in cui sono scritte le modalità di intervento per quel tipo di zona. Per esempio l’articolo 21 delle nuove norme (quelle del PGT appena adottato) al comma 4.a dice che nelle parti di città chiamate “città giardino” se si fanno trasformazioni queste devono rispettare il numero dei piani esistenti e non si può modificare la tipologia edilizia. Insomma se ho una villetta non posso trasformarla in una palazzina e viceversa.
Sto semplificando molto, ma a grandi linee questo è il funzionamento del PGT.
Terminata la parte divulgativa, proviamo ora a ragionare su come si arriva al prodotto finito. Come si fa un PGT?
In teoria un piano urbanistico dovrebbe essere frutto di un lungo lavoro analitico, basato su dati numerici e quantitativi (dati statistici, economici, lo stato di attuazione del precedente piano), ma anche da un’analisi più complessa degli elementi qualitativi (i cosiddetti indicatori) della città che si va a governare. C’è poi l’ascolto della città che dovrebbe portare a individuare i bisogni e le necessità della popolazione. Infine c’è la visione strategica, le scelte di tipo politico, più che tecnico, che rispondono alla domanda da un milione di dollari: che città vogliamo?
Proviamo a ripartire dalla citazione iniziale (contenuta nella relazione del Piano dei Servizi del PGT 2012).
Progettare (e quindi anche pianificare) significa comprendere i bisogni (primari, ma non solo) delle persone. Ma una politica seria non può solo correre dietro alle richieste dei cittadini (che per definizione sono parziali) altrimenti scadrebbe nel populismo di pancia. Deve anche avere la capacità e il coraggio di proporre una visione strategica di insieme che arrivi a dire ai cittadini quali scelte si fanno e che conseguenze vi saranno a fronte di quelle scelte. Tanto poi i risultati elettorali forniranno il relativo feedback.
Il difficile è mantenere un equilibrio tra i bisogni richiesti e quelli che consapevolmente si sceglie di indurre.
Proviamo a fare un esempio banale. Le piste ciclabili. La scelta di farle è senza dubbio di tipo strategico. Riflette un orientamento politico chiaro (mobilità dolce e sostenibile). È figlia di una narrazione precisa. Poi però c’è l’aspetto pratico. Molto milanese. Le piste ciclabili sono realizzate a brandelli, scollegate tra di loro e non necessariamente dove servono. Risultato? A oggi sono ancora poco utilizzate nonostante i numerosi servizi di bike sharing. Questo perché? Mancavano i fondi per una realizzazione organica? C’era un progetto complessivo legato a Expo che non è mai stato portato a compimento? Tutto vero e comprensibile. Ma è altrettanto valido sostenere che nel momento in cui si realizza un’infrastruttura prima o poi questa verrà utilizzata.
Questo ovviamente va esteso a tutti i temi che riguardano il PGT di Milano 2030. Nei prossimi mesi cercheremo di capire se da questi documenti ne emerge una visione chiara e definita. E se gli strumenti tecnici sono coerenti con l’idea di città proposta.
Pietro Cafiero
* Il sottotitolo è una citazione di Charles Eames
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