26 luglio 2017
L’INNOVAZIONE GERMOGLIA IN CITTÀ, CHE FARSENE?
Fa crescere la città o è la città che la fa crescere?
26 luglio 2017
Fa crescere la città o è la città che la fa crescere?
È noto che le città ospitano ecosistemi di innovazione attivati da gruppi e/o comunità di individui capaci di generare nuove catene di valore adoperando risorse nuove o componendo quelle esistenti in modo nuovo, così contribuendo a fare città. Queste sfere, o nicchie, di innovazione sono fondamentalmente istanze di cambiamento, variano per dimensioni, per tipologia di attori e organizzazioni coinvolti, per complessità del problema che affrontano, e vengono concettualizzate in modi diversi.
Sono descritte come “living lab urbani” quando vengono attivati da una precisa intenzionalità progettuale; ovvero come “epifanie di innovazione” quando hanno natura di insorgenza, spesso innescata dall’urgenza dei problemi nella vita quotidiana; sono “test bed” (banchi di prova) nella vita reale quando sono orientate alla valutazione o alla sperimentazione di nuovi prodotti o servizi; sono anche “ecosistemi di apprendimento” in quanto possono attivare e produrre cambiamenti comportamentali; o ancora “trading zone” (ambiti di scambio) quando diversi attori si allineano intorno ad una azione condivisa, intorno al “fare” superando, in alcuni casi sfidando, i confini delle organizzazioni e i domini tecnico-culturali cui appartengono.
Queste sfere di innovazione germogliano numerose nelle città con sorprendente intensità, abbondanza e frequenza; è nei contesti urbani infatti che si genera quel clima organizzativo capace di abilitare e catalizzare l’innovazione. Qui l’innovazione si nutre della ricca diversità di ambienti e risorse (tanto materiali che immateriali) e della loro reciprocità; qui si determinano condizioni che, talvolta in modo casuale, sono generative di contaminazioni cognitive e di pratiche.
In queste sfere di innovazione vengono sperimentati modelli alternativi di governance dando luogo a organizzazioni complesse che, in forme ibride tra formale e informale, integrano strutture gerarchiche a strutture orizzontali, coinvolgono pubblico e privato, o attore pubblico e gruppi di cittadini, o ancora attori privati e cittadini. Si generano quelle che alcuni chiamano quasi-organizzazioni (o quasi-istituzioni) che diventano attive nella città.
“Quasi”, perché hanno una formalizzazione organizzativa minima atta a garantire allo stesso tempo la capacità di agire (dialogare con le istituzioni e operare formalmente nelle procedure) e la necessaria flessibilità per adattarsi alle mutevoli circostanze che la città crea. Spesso, dentro il “quasi”, queste sfere di innovazione sfidano i vincoli normativi che regolano il loro dominio di esistenza o azione: le norme conformano e governano il campo delle energie di innovazione anche costruendo opportunità ma talvolta riducono l’efficacia dell’azione innovativa.
La città alimenta l’innovazione ma ne è anche sfidata e messa a dura prova. Da un lato la necessità di creare le condizioni perché l’innovazione germogli dall’altra l’istanza che la stessa innovazione impone di riflettere su sé stessa, di ripensarsi senza compromettere visioni coerenti e di lunga durata. L’innovazione germoglia in città e la città cosa può farsene? La risposta più ovvia è legata alla visione restrittiva, seppur fondamentale, dell’innovazione: mobilita il mercato, genera sviluppo.
Questa visione guarda alla città come ad un servizio, una piattaforma indifferente messa a disposizione di chi meglio riesce a sfruttarne risorse e opportunità. Uno sguardo attento alle sfere di innovazione e alle sfide che queste lanciano alla città ci consente però di concepire la città anche come un organismo che apprende, che sperimenta e apprende per l’innovazione, attraverso l’innovazione.
L’apprendimento possibile ha diverse dimensioni. La prima è quella istituzionale. Le sfere di innovazione che si generano nell’ambiente urbano evidenziano la già nota esigenza di revisione istituzionale tanto organizzativa, verso strutture più sinergiche, meno isolate e frammentate nelle competenze, quanto normativa verso condizioni regolative più rilassate e concepite come strumenti di creazione di opportunità piuttosto che esclusivamente di controllo e governo.
Una seconda dimensione è quella cognitiva. Se l’innovazione è produzione di valore attraverso la generazione di nuova conoscenza, la città, che generalmente guarda alla conoscenza come risorsa competitiva, può trasformare quella conoscenza da risorsa esclusiva a bene comune, riconoscendo il valore collettivo di innovazioni che, generatesi al suo interno, rappresentano modi di fare città che essa stessa ha prodotto.
Su un nuovo concetto di cittadinanza, infine, la città potrebbe lavorare a partire da quanto mostrato nelle sfere di innovazione. Si tratta, in molti casi, di iniziative di appropriazione della città, di modi alternativi di concepire pratiche e modi d’uso della città. Le sfere di innovazione propongono forme di cittadinanza che contemplano il diritto di fare città e rappresentano ambiti di sperimentazione del concetto. L’innovazione germoglia in città suggerendo possibili rotte di trasformazione. Che farne? Almeno proviamo ad ascoltarla.
Grazia Concilio
Tecnica e Pianificazione Urbanistica – Politecnico di Milano