8 gennaio 2019
PRIMARIE PD E FORMA PARTITO: UNA DISCUSSIONE INFINITA?
Riflettere per affrontare un futuro tutto in salita
8 gennaio 2019
Riflettere per affrontare un futuro tutto in salita
Intanto una nota sconsolata: chi dentro e fuori il PD, ha fortemente criticato in passato e assetto formale e pratica sostanziale della sua vita democratica, si trova inopinatamente “superato a sinistra” da quanti facevano spallucce o negavano il problema della democrazia interna e della capacità di rappresentanza. Discontinuità e riformismo radicale, queste le parole d’ordine di troppi, condita con la retorica del “noi” somministrata così senza vergogna, come antidoto a quella renziana dell’io, da dirigenti che hanno contribuito ognuno a suo modo, per scelta, ignavia, inerzia, a fare del PD un “non luogo” politico, dove l’eccesso di declamazione verbale occultava l’effettivo esercizio di un potere oscillante tra monocratismo decisionista e caminetti tra capibastone.
Le primarie 2019 offrono l’occasione per riprendere la questione annosa ma irrisolta della forma partito, quella formale (statuto) e quella sostanziale (pratica organizzativa) nel Partito Democratico. La lettura delle mozioni finalmente presentate dai candidati non aiuta molto a comprendere, tra le intenzioni, le proposte concrete con cui declinare il passaggio dalle rovine attuali al partito vagheggiato, ma tuttora irrisolto nei suoi effettivi connotati e procedure.
Nella breve economia di un articolo online, non si trova spazio per una lettura e una critica comparata della visione di partito proposta nelle diverse mozioni. Forse può essere più produttivo porre alcune essenziali domande e lasciare a chi legge il compito di interpretare le diverse risposte, dove ci sono.
La prima domanda è se il PD debba essere un partito di iscritti o di elettori.
La seconda domanda è il processo di selezione dei gruppi dirigenti.
La terza domanda è se sia ancora tempo di rappresentanza.
Nel disegno di Walter Veltroni, il coinvolgimento dell’elettore democratico era essenziale per ridare sostanza partecipativa a un nuovo campo democratico: nelle cosiddette “primarie” si doveva generare la temperatura necessaria per evitare la fusione a freddo tra formazioni di ispirazione comunista, cattolica e laico-libertaria. Un tentativo generoso nelle intenzioni, ma che nel tempo ha mostrato più vizi che virtù nell’impianto: a conti fatti, gli iscritti si sono sentiti accantonati e gli elettori intiepiditi. Il meccanismo ha svolto sempre più la funzione di pesare le correnti e i loro dirigenti. La scelta di fondo di introdurre le primarie di ispirazione americana nel corpo vivo dell’impianto partitico europeo ha compromesso sia le “istanze liberatorie” delle prime che le “memorie resistenti” del secondo: l’innovazione a metà non ha funzionato.
Il quadriennio infelice di Matteo Renzi ha aggravato il quadro. La sua visione di “vincente pigliatutto” era forse compatibile con la prassi statunitense. Eletto ed elettore chiamati a porsi in relazione ogni tanto. In mezzo non una comunità organizzata, un partito come storicamente si è formato in secoli di lotta politica europea. Non un soggetto con cui condividere passo passo il processo decisionale, ma un ensemble liquido di fondazioni, associazioni, stakeholder, semi dormiente tra un’elezione e l’altra, mobilitabile solo nella forma del Comitato elettorale.
Per certi aspetti si deve ammettere che Matteo Renzi poteva essere l’esecutore testamentario più adatto ad attuare il mandato veltroniano, liquidando la forma partito finora residuata nel PD, per transitare finalmente verso il modello americano. Di qua elettori, di là eletti, niente circoli, niente direzioni, niente assemblee, luoghi per i quali l’ex leader nutriva allergia per non dire disprezzo, salvo due forme residuali: quelle istituzionali degli eletti e quelle delle convention.
Il lanciafiamme non è stato usato, se ne dispiace l’ex leader, ma le rovine che ha lasciato al suo passaggio sono il segno di un disastro politico e culturale che lascia senza fiato.
E dunque: PD di iscritti o di elettori?
Diversi candidati restringono lo spazio per gli elettori alla sola individuazione del candidato premier e, non tutti, del Segretario Nazionale.
Intanto, è bene ricordare che in quest’ultimo caso, non si tratta di selezionare i migliori candidati per le cariche pubbliche elettive, cosa che è appunto affidata dal modello americano alle “primarie”, ma di eleggere direttamente il leader di una formazione partitica, definita per principi, obiettivi, programma e struttura organizzativa, dagli iscritti che l’hanno fondata e giorno per giorno la vivono. Con un salto logico incomprensibile, si vorrebbe che un popolo intero, che non ha partecipato e per larga neppure è informato né si interessa minimamente delle questioni su cui vive il partito come entità associativa, decidesse in prima persona se va bene il candidato x o il candidato y come sua guida. In termini logici, via, una vera e propria fesseria, una riproposizione non meditata di princípi politici nati per vivere in un contesto del tutto diverso.
In effetti, le primarie nacquero in Italia per proclamare Romano Prodi alla guida della coalizione di centro sinistra e non come segretario di partito e così dovrebbero continuare a vivere, e non è poco.
Circa la selezione dei gruppi dirigenti, temo si tratti di una sfera di intervento in cui nessuno è interessato a toccare nulla. Bisognerebbe infatti ammettere che da molti anni nel PD i dirigenti non sono eletti ma piuttosto nominati. Direzioni e assemblee sono nominate per parte dai segretari di diverso ordine e grado, quasi come funzionari o espressione di segreterie tecniche. Altrettanto spesso, i dirigenti a tutti i livelli sono proposti in forma di lista bloccata, associata a una candidatura di area, ed eletti in base alla loro posizione in tale lista.
Non sono previste preferenze che ahimè, nella logica correntizia, fanno rima con “interferenze”.
Chi sceglie i nomi e chi li mette in certe posizioni? Il Capobastone. Chi decide chi vince e chi resta al palo? Chi avrà un futuro e chi dovrà tornare a casa? Sempre lui, il Capobastone.
In quest’ordine procedurale e in queste prassi, si perde completamente per strada la relazione tra ruolo dirigente e consenso, che è sostituito dalla fedeltà al Capo, compromettendo irreparabilmente il diritto dell’iscritto di scegliere egli stesso il proprio dirigente, principio che vive in tutte le forme associative conosciute. E dunque: da un lato, si estende all’elettore non iscritto il potere supremo di eleggere il segretario del PD e dall’altro si affida al capobastone la nomina del dirigente locale.
Che ne è della democrazia interna, del rapporto tra base e vertici, dell’autonomia sempre cercata, ma sempre concussa, di esprimere con il consenso la fiducia nelle persone e nelle visioni che propongono? E soprattutto che ne è della sempre più auspicata capacità del nuovo PD di mettersi in relazione con il contesto circostante? Povero iscritto PD, davvero ti resta solo la corvée cucina alle feste democratiche, sempre più malinconiche?
Ma il vero problema consiste nella funzione storica del partito, se possa ancora essere declinato nella forma della rappresentanza o se debba cominciare a cedere, e come, il passo alla partecipazione diretta delle persone alla deliberazione politica.
Questo a sinistra, perché a destra il passo si cede già al populismo parafascista.
Se il partito deve la sua forma ai fini che persegue e al contesto in cui opera, dobbiamo sapere alzare lo sguardo e cogliere i segni della crisi progressiva della forma partito di massa etero diretto del ‘900. Se il modello leninista era il vestito organizzativo adatto per un partito che doveva dirigere verso l’atto rivoluzionario larghissime masse disperate, se il partito massa era il vestito utile per raccordare élites alle classi lavoratrici della società industriale, cosa deve essere il partito in società estremamente differenziate socialmente e culturalmente, dove le identità collettive tendono a sciogliersi e a riemergere come fenomeni del consumo, del bisogno di libertà, o di comunità?
Dove sta, se vi è, un “centro di gravità permanente” e come raccordarlo al caleidoscopio delle molteplicità? Se consideriamo che politica è farne sintesi, indirizzandole verso finalità comuni, allora dobbiamo cominciare a fare spazio anche a forme di partecipazione diretta, apartitiche non apolitiche. Le diverse mozioni ipotizzano aperture sia verso gli iscritti sia verso gli elettori.
Un dato però sembra certo: per quanto sia importante la forma partito, la visione della società, il contenuto delle proposte, l’individuazione dei principali soggetti di riferimento, insomma il contenuto dell’azione politica, fanno premio su tutto.
Su questo il Congresso, dovrà ben mostrarsi all’altezza.
Giuseppe Ucciero
Un momento della manifestazione nazionale del Pd in piazza del Popolo, Roma, 30 settembre 2018. ANSA/GIUSEPPE LAMI
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